La mediazione familiare nelle situazioni fortemente conflittuali

(Lara Trezzini – MLaw e mediatrice FSM presso i consultori CCF)

Prima di valutare il senso della mediazione familiare nelle situazioni ad alta conflittualità è bene definire di che cosa si intende per “alta conflittualità”. Trovo estremamente concisa e chiara la definizione di Klara König che mi permetto di riprendere di seguito: “le situazioni altamente conflittuali nell’ambito familiare sono le situazioni nelle quali la comunicazione tra le persone è diventata impossibile, a causa di un’opposizione foriera, a priori, di una volontà reciproca di nuocere, di distruggere; il rispetto e la diversità non hanno spazio e gli interessi comuni e dell’altro sono negati. Ci sono situazioni dove il conflitto perdura e invade tutta la sfera familiare” ( Klara Gönig, La médiation familiale dans le situations hautement conflictuelles, Mémoire ESS Lyon, février 2017).

Come abbiamo visto nella definizione precedente, le situazioni fortemente conflittuali sono caratterizzate da un confronto distruttore e il bilancio del conflitto rischia di essere “perdente-perdente”. A questo livello di conflittualità è probabile che la mediazione non sia già più possibile perché i mezzi a disposizione del mediatore non sono più sufficienti per poter riportare le persone ad un grado di conflittualità che permetta un risultato “vincente-vincente”. Ciononostante, anche in questi casi, ci sembra assolutamente auspicabile un tentativo da parte del mediatore di far abbassare le tensioni, di convincere le parti che si può trovare un accordo anche con una parte di disaccordo, di aiutare le parti a ritrovare una serenità tale da poter vivere lontano l’uno dall’altro. Piuttosto che sprofondare nella violenza, che porta disprezzo, indifferenza e che allontana, risulta quindi estremamente importante cercare di trasformarla in uno stato di conflitto che possiamo imparare a gestire. Ciò permette di creare  le condizioni per un sano confronto tra le parti al fine di trovare una soluzione comune.

A questo punto è necessaria una precisazione sulle nozioni di conflitto e di violenza che vengono spesso considerate come un’unica accezione. Si tratta in vero di due realtà ben distinte. Mentre la violenza è sempre negativa, separa ed isola (di seguito vedremo più in dettaglio il concetto di violenza secondo la terapia sociale), il conflitto può invece far crescere e addirittura migliorare un rapporto.

Il conflitto dunque, inteso come confronto, permette all’individuo di esistere con le proprie peculiarità, (mentre la violenza annienta l’individuo), permette uno scambio d’opinioni tra le parti, per questa ragione non va soffocato come erroneamente si pensa. Il conflitto soffocato infatti, nel tempo, conduce alla violenza. Nell’ambito del rapporto di coppia, così some nelle relazioni sociali in generale, i non detti, i malintesi, le ferite sottaciute, che vanno a cumularsi nel tempo, sfociano poi in una violenza che diventa ingestibile e trascina nel baratro la relazione.

Per poter far fronte alla violenza e imparare a comunicare in modo non violento, bisogna innanzitutto cercare di capirla e di comprenderne le origini. Che cosa vuole l’altro? Quali sono i suoi bisogni reali? Cosa sta succedendo nella nostra relazione? E io, di cosa ho bisogno? Qual è il mio potenziale d’azione? È estremamente importante riuscire a distinguere tra fantasmi, proiezioni e realtà.

Secondo l’approccio della terapia sociale[1], dietro ogni violenza si nasconde una paura e dietro ogni paura vi è un bisogno dell’individuo che è minacciato. Il metodo della terapia sociale consiste nella trasformazione dei risentimenti, delle violenze, dell’odio delle persone. Cerca di ricreare un legame tra le persone separate a causa delle loro paure e dei loro pregiudizi. Permette loro di creare dei legami costruttivi al fine di vivere i conflitti necessari alla risoluzione delle loro tensioni. E`un approccio estremamente utile nell’ambito della mediazione.

Qui di seguito una tabella che riassume in modo chiaro il legame tra bisogno, paura e violenza.

A dipendenza del nostro vissuto, siamo più sensibili a certi bisogni rispetto ad altri. Quando abbiamo l’impressione di essere attaccati in uno di questi bisogni nasce la paura. La paura rende impotenti e un modo per uscire da quest’impotenza è la violenza (vedi tabella).

È dunque importante imparare a conoscere i nostri punti sensibili in modo tale da poter distinguere i pericoli reali da quelli immaginari e riuscire dunque ad evitare la violenza. Allo stesso modo possiamo imparare a riconoscere ed a prestare attenzione ai “talloni d’Achille” degli altri per non provocare inutili violenze, o per evitare un’escalation di violenza. Questo significa che ci possiamo e ci dobbiamo difendere anche senza attaccare ulteriormente l’altra persona.

Il mediatore sarà dunque particolarmente attento all’ascolto delle paure delle parti e adotterà un atteggiamento tale da calmare tali paure e far sentire entrambe le parti accettate per come sono grazie ad un ascolto attivo. In particolare cercherà di non abbandonarle (prendere sul serio ciò che dicono), di non svalorizzarle (non serve valorizzare in modo eccessivo una persona perché si consideri di valore, basta non svalorizzarla), di non mettere l’altro nell’incertezza (vedi tabella: bisogno di “senso”).

Il mediatore deve altresì aiutare le parti ad accettarsi reciprocamente per quelle che sono. Non è necessario infatti svalorizzare l’altro per imporre il proprio punto di vista. Lo scopo è capire l’altro ed accettare che abbia un punto di vista diverso dal proprio e, consapevoli di questo, cercare una soluzione applicabile per entrambi, nel rispetto reciproco.

Per usare le parole di Vito Mancuso[2] : “è dunque necessario arrivare alla consapevolezza del proprio punto di vista in quanto punto e in quanto parte, e la conseguente presa di distanza dall’atteggiamento mentale che pretende di identificare la propria parte con il tutto e che così genera violenza”.

Estremamente esemplificativa di questo pensiero (pensiero che peraltro sta alla base della mediazione e della comunicazione non violenta), è una parabola buddista, tratta dal libro di Mancuso, che racconta di un re che ordinò di radunare tutti i nati ciechi del regno e di condurre loro un elefante per farlo toccare ad ognuno: ci fu così chi gli toccò la testa, chi l’orecchio, chi la proboscide, ...Poi il re chiese come fosse l’elefante e i cechi risposero paragonandolo all’oggetto che più si confaceva alla parte che avevano toccato: a una brocca, a un setaccio, a una scopa,..., il che, naturalmente, finì per farli litigare. L’insegnamento della parabola è riassunto così: “Disputano e polemizzano coloro che vedono soltanto un lato delle cose”.

In un caso di alta conflittualità è dunque ipotizzabile avere un approccio che vada a calmare le paure degli utenti per riuscire a calmarne o limitarne anche la violenza. Le parti hanno bisogno di essere accettate e comprese per poter essere disponibili a degli accordi. È quindi compito del mediatore cercare di rinstaurare un clima di fiducia e comprensione tra loro tale da rendere possibile una collaborazione tra i due.

Tutto ciò è ancora più necessario quando la coppia in conflitto ha dei figli. Questi ultimi, loro malgrado, sono inevitabilmente coinvolti in questa grande “battaglia” che annienta, in primis, la capacità genitoriale di una coppia. Il bambino diventa spesso in questi casi un “arma di guerra” e viene strumentalizzato finendo in un conflitto di lealtà verso entrambi i genitori. Un mezzo per venire in aiuto a questi minori è il loro ascolto. Si predispone un luogo neutrale ed accogliente dove il bambino può esprimersi liberamente ed essere sentito in merito ai propri bisogni, ai propri desideri, a quanto sta succedendo attorno a lui e a come lo sta vivendo. L’ascolto del minore, previsto dall’art. 144 cpv. 2 CCS, è molto importante in quanto, in seguito, i genitori sono messi a conoscenza di ciò il figlio reputa importante per sé stesso e questo permette loro di confrontarsi in un’ottica costruttiva e, aiutati dal mediatore, di trovare un equilibrio e un accordo almeno per quanto riguarda il bene del loro figlio. È con questo scopo che la legge prevede la possibilità per il giudice di ingiungere ai genitori di tentare una mediazione (art. 297 cpv.2 CPC), proprio perché, dall’alto della sua autorità, egli può stabilire contributi di mantenimento e diritti di visita, ma nulla può per la relazione tra i genitori che necessita di essere ristabilita per la tutela del bambino.

Degli effetti sui bambini, di un grave conflitto tra i genitori, possiamo leggere nel contributo di Tiziana Nappo Fusetti.

(Fonte: Rapporto Annaule 2019 CCF)


[1] La terapia sociale è stata inventata negli anni ‘80 da Charles Rojtzman (psicologo sociale francese, filosofo, autore e leader internazionale nella mediazione dei conflitti raziali, etnici e interculturali di tutto il mondo). Egli ha fondato l’”Institut Charles Rojzman” a Parigi (centro di competenze internazionali che mira a prevenire e trasformare le violenze nelle loro diverse forme attraverso la terapia sociale).
[2] Vito Mancuso, La forza di essere migliori, trattato sulle virtù cardinali, 2019, Garzanti, Milano; Vito Mancuso è teologo e filosofo, ha insegnato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e l’Università degli studi di Padova, autore di diversi libri.
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